Smartworking – Un punto di vista operativo e fenomenologico
Di recente una nota agenzia per il
lavoro ha richiesto un mio intervento in tema, all’interno di un corso di
formazione finanziata, dove ho affrontato la tematica dello smart working.
Come promesso agli allievi di
quella mattina, eccomi a fare un riassunto di quando discusso e anche ad
ampliare maggiormente i concetti affrontati.
Premetto che non tratterò in questo scritto tematiche proprie del legislatore, rimandando a fonti più competenti del sottoscritto: un valido aiuto, per chi fosse interessato ad approfondire meglio quest’area, è la voce “Lavoro_agile” di Wikipedia. In questo articolo tratterò lo Smart working (abbreviato anche in “sw”) da un punto di vista esperenziale e fenomenologico, anche a fronte dell’esperienza personale maturata in questi anni.
Iniziamo a vederne le basi. Lo smart working è una modalità di lavoro, un insieme di mansioni, delegabile in strutture fisiche esterne e diverse da quelle abitualmente presenti in una postazione all’interno di un’azienda. In altri termini, lo sw, che può essere tradotto in italiano come “lavoro agile”, è l’opportunità di poter lavorare da casa anziché in ufficio.
Tralasciando tutti i dettagli relativi ai contratti di lavoro di riferimento, questa modalità di lavoro non è fruibile per tutte le mansioni e le professioni presenti: difficilmente se siete assunti in un cantiere edile il responsabile vi dirà di poter “lavorare a casa” per poter concludere fisicamente l’edificio. Lo stesso vale se siete impiegati in un magazzino o davanti a macchinari di produzione a controllo numerico.
Potreste, quello sì, portarvi “il
lavoro a casa” (ovviamente non sempre questo è fattibile…): non è una novità,
del resto. Pensiamo al cottimo: il
lavoro a cottimo era abitudine frequente nel nostro paese, specie in quelle
realtà aziendali, dove piccole e medie fabbriche, delegavano a collaboratrici
l’assemblaggio dei loro capi di abbigliamento. Più maglioni, giacche,
assemblavo – e portavo poi in ditta – più mi pagavano.
Il lavoro agile dei nostri tempi, specie quello massivamente richiesto a seguito della pandemia virale che ha costretto molti imprenditori a rivedere le attività produttive, è diverso dal lavoro a cottimo poco sopra esposto, in quanto il lavoro agile si attua attraverso l’utilizzo prevalente di strumenti informatici e possono comprendere più mansioni molto diverse tra loro.
Gran parte delle mansioni associate
ad esso sono legate all’uso di tecnologie particolari (smartphone, computer,
stampanti, ecc.) in relazione a specifiche attività, prevalentemente legate
all’ambito impiegatizio o formativo. Attraverso il lavoro agile quindi è
possibile redigere i cedolini per le amministrazioni, tenere i contatti coi
fornitori, coi clienti, continuare i progetti di crescita e programmazione
aziendale, e così via.
Compresa appunto la formazione, che si ha sia con i più giovani sia con l’età più adulta, a sua volta prevista sia negli enti privati che pubblici – scuole primarie, secondarie, Università, corsi di formazione di vario genere, aggiornamenti per materie specifiche, ecc.
Guardando lo smart working dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, questo insieme di attività rientra in quella tipologia di rischio “basso”, associato appunto a mansioni legati all’uso di videoterminali, o comunque inerenti al settore impiegatizio.
In questo senso, lavorare da casa
non è semplicemente sedersi davanti al proprio computer portatile sulla tavola
dove usualmente si mangia e da lì fare tutte le richieste che il nostro
responsabile ci dice di fare. La postazione di lavoro domestica deve
rispecchiare quanto più quelle condizioni che troviamo in azienda, normate
appunto dalle direttive del D.Lgs. 81/08 (per i più pignoli: l’allegato XXXIV
della normativa suddetta sulla sicurezza sui luoghi di lavoro è dedicato
proprio a questo, in quanto specifico per lavori operanti con Videoterminali, o
VDT).
Lavorare da casa è diverso dal “passare un po’ di tempo al computer”, come quando ci si dedica ai social, si guarda un serial o si assiste ad un talk-show. Non è svago, occorre ricordarlo bene. Sempre che il vostro lavoro vi piaccia davvero: nel qual caso svago, passione e impiego si fondono in un tutt’uno.
La postazione richiederà uno “spazio
psicologico”, in primis: dovrete chiarire ai vostri coinquilini (moglie,
marito, figli, parenti vari, partner…) che dalle ore x alle ore y starete in
camera, in sala da pranzo, a lavorare. Sarà opportuno accordarvi con loro circa
le pause o comunque sul fatto che veniate disturbati il meno possibile. Per chi
ha figli piccoli questi compromessi sono molto difficili da raggiungere, ma non
sono comunque impossibili. Spesso ricorrere, a suocere o amiche
che vengono a star dietro ai cuccioli, può rivelarsi una soluzione efficace.
Lo spazio fisico è un bel problema.
Durante il lockdown dei mesi scorsi
ho potuto assistere, sui vari social-network e per televisione, a monologhi di
persone che elogiavano quanto bello fosse stare a casa e godersi delle “ferie
forzate”: peccato che chi promuoveva, contento, questi argomenti abitasse in
malghe ai piedi delle Dolomiti o in appartamenti di (almeno) 90-100 mq, senza
figli e forse con un unico compagno o compagna. Nella mia personale esperienza
ho potuto notare che la realtà cruda della vita è spesso diversa. Ho visto
famiglie abitare in appartamenti di 40 o 50 metri quadri con due, tre bimbi,
spesso con un familiare aggiuntivo all’interno delle mura domestiche. Non è
facile restare costretti a vivere – e lavorare – in queste condizioni. Forse
stare zitti e non declamare in modo sottile la propria ricchezza sarebbe stata
la mossa più opportuna nel fare certi interventi mediatici.
Tuttavia, anche se ci troviamo ad
operare in contesti fisici ristretti, possiamo arrivare a delle soluzioni: il
ricorso all’isolamento (bruttissima parola) tramite cuffiette e microfono può
rivelarsi utile, sempre specificando l’importanza delle azioni che stiamo
compiendo: se un ragazzino vede la mamma od il papà al computer, normalmente
adoperato per giocare, deve comprendere che sta lavorando anche per lui, e
pertanto portare rispetto e tolleranza per l’impegno mostrato dal genitore. In
altri casi può tornare utile recarsi presso postazioni di lavoro “in affitto”,
disponibili nei centri commerciali o in strutture idonee. Vivendo ad
Albignasego, una cittadina proprio poco fuori Padova, ho notato
quest’opportunità presso il Centro Commerciale più grande del Comune patavino,
dove sono state allestite delle postazioni molto utili per chi vuole – e deve –
lavorare a distanza. Informandovi presso i vostri paesi sicuramente troverete
soluzioni simili.
La postazione fisica, una volta
obbligati a non muovervi dall’abitazione, dovrebbe avere altri requisiti, a partire dalle sedie: comode, possibilmente con braccioli. Non le poltrone vere e proprie, mi
raccomando: le braccia e la colonna vertebrale devono stare in posizioni sì
comode, ma non innaturali. Generalmente, qualora si lavori ad un computer, gli
avambracci devono piegarsi a 90° rispetto alla schiena, parallele alla tastiera,
la cui schiena dovrà stare il più possibile perpendicolare al terreno.
L’ausilio dei braccioli nelle sedie è necessario appunto per questo motivo, in
quanto i gomiti, mentre si lavora, dovrebbero stare sullo stesso piano della
tastiera, e non troppo lontani da essa e vicini al busto. Se disponiamo di una
classica seduta senza troppi confort, avremo cura di spingerci sotto il tavolo con
essa e porre così i gomiti sul tavolo.
Le gambe devono essere libere di
potersi estendere sotto il tavolo stesso, e se avete un poggiapiedi, uno
sgabellino, meglio ancora, in quanto, stando a lungo seduti, poterle alzare un
pochino vi farà sentire meglio, cambiando di poco la posizione.
Anche l’illuminazione è importante:
mai la luce diretta dietro di voi o davanti a voi. Le finestre dovreste averle
ai vostri lati, munite di tende o persiane, necessarie quando il sole fa
capolino in modo più insistente e fastidioso. I riflessi sul monitor e in prossimità
del campo visivo vanno evitati tassativamente: ecco perché i tavoli degli
uffici sono rigorosamente opachi e non riflettenti. Lo stesso vale anche per
l’illuminazione artificiale: non devono mai avere un impatto disturbante mentre
stiamo lavorando. Anche in questo caso fateci caso alle luci degli uffici: sono
tutte schermate per questo motivo.
Microclima: se siete freddolose (o freddolosi) scrivere al computer accanto al termosifone con una buona tazza di tè caldo può essere molto rilassante. Occhio però a non far scendere troppo la temperatura in stanza. Stando fermi si amplifica la sensazione di freddo, in quanto ben pochi muscoli si muovono. Il troppo non fa mai bene, e la virtù sta nel mezzo. Essere coperti di berretti, sciarpe e guantoni non è la scelta idonea, poiché avremmo parecchi impicci nel concentrarci e rispondere correttamente alle mail. Ma nemmeno sudare come quando si è in piscina. Qualcuno di voi obietterà che anche in piscina è possibile fare del lavoro agile: certo, ma non in modo continuativo. Potrebbe capitare che in determinati momenti possiate usare solo lo smartphone, e quindi dedicare qualche ora a quella specifica mansione anche in riva al mare o a bordo vasca, ma saranno episodi ristretti e comunque limitati. Dovete vedere lo smart working come un impiego a lungo termine, non un ripiego di qualche ora da fare a casa o in vacanza.
Analizziamo ora l'aspetto del telefono, o smartphone:
un uso continuativo e protratto nel tempo di questi dispositivi, sempre più
potenti a livelli di emissioni di onde, avrà comunque degli effetti sulla
salute. Il telefonino del XXI° secolo è un delicato e sofisticato compromesso
di tecnologia miniaturizzata, munito di programmi di ogni tipo e con antenne
incorporate della potenza fino a qualche anno fa non immaginabile.
Essendo una tecnologia in rapido
miglioramento e soprattutto nuova
(nel 2000 c’erano i telefonini, ma era l’epoca dei Nokia 3210. Completamente
diversi dai telefoni attuali, a partire dagli schermi) ci sono ben pochi studi
a lunga distanza sugli effetti a lungo termine sulla nostra salute. Per “studio
a lungo termine” intendo un’analisi protratta per diversi anni – spesso
equivalenti alla vita media di un essere umano – dove vengono analizzate le
tecnologie usate e l’insorgenza anomala di patologie in qualche modo legate ad
esse. Non basta quindi il caso isolato del… “…cugino di mio padre che usava
notte e giorno il telefono per lavoro e poi a 45 anni è morto di cancro
fulminante alla testa”. I tumori sono malattie multifattoriali, molto complessi
e le cause che li provocano sono spesso misteri anche per chi li studia da
anni: le cause che sentite dire spesso, quelle poi in forma semplificata,
prendetele con le dovute pinze e cercate di andare a fondo della notizia. La disinformazione
e la faciloneria in questi tempi stanno trovando terreno fertile.
In quest’ottica, quindi, con questi
dispositivi di nuova concezione – ed il relativo campo di applicazione, con
l’implementazione parallela di linee e apparati esterni necessari al
funzionamento degli stessi – non c’è ancora il tempo utile per verificare cause
e effetti sulla loro vera o presunta dannosità verso la nostra salute. Le varie
case costruttrici dicono la verità quando leggete i foglietti sulla sicurezza
in dotazione ai loro prodotti: non c’è alcuna ombra di complottismo o chissà
quale oscura volontà di prenderci in giro. Alla luce attuale dei fatti e del
tempo in cui viviamo, mancano prove documentate – e serie, cioè fatte da
organismi competenti e riconosciuti a livello mondiale – che l’uso protratto
degli smartphone possa condurre a determinate patologie. Magari i nostri nipoti
la penseranno in modo diverso, pensando a noi come irresponsabili a tenere
incollati alla testa questi aggeggi, in quanto col passare del tempo
emergeranno i dati di questi studi che sicuramente sono già in atto.
Se tuttavia ci sorge un dubbio in merito, occorre agire usando delle precauzioni: evitiamo di tenere incollato il telefono alla nostra testa, non ponendola a contatto diretto con le antenne, e distanziamolo semplicemente di qualche centimetro, ad esempio con la falange di un dito. Adoperiamo le cuffiette, meglio se a filo (sempre se disponibili): la distanza dal telefono permette di allontanarci dalla fonte delle emissioni di radiofrequenze, ci libera le mani e questo fa si di poter lavorare in modo meno vincolante dall’avere il dispositivo attaccato a noi, col rischio concreto che possa cascare e rompersi. Stesse indicazioni possono essere adoperate anche col computer: anche questi sono fonti di emissioni elettromagnetiche, ma non ho ancora visto nessuno stare attaccato per ore ad un portatile da 15 pollici all’orecchio.
Sempre attinente ai computer, le tastiere dei netbook, notebook, tablet e così via sono torture per i nostri polsi. La normativa vigente – sempre il D.Lgs. 81/2008, che dovreste conoscere altrimenti non potreste lavorare… – obbliga tutti i lavoratori, che si trovino ad essere impiegati per più di venti ore settimanali in postazioni con terminali portatili, di munirsi di dispositivi di puntamento esterni (i mouse, per capirci) e tastiere estese (quelle classiche, dalla forma rettangolare, propria dei computer “fissi”). Non occorre avere lauree in medicina per capirne i perché: provate di persona a ricopiare dati su un foglio di calcolo per almeno 30 ore alla settimana adoperando un netbook da 10 pollici. O anche a postare articoli e trascrivere ricette sul vostro blog, sempre con le stesse modalità. Forse sarete comodi le prime ore, ma dopo una settimana di lavoro già comincereste ad avvertire dolori o accusare “qualcosa che non va” nelle mani. Se non siete ancora convinti, state incollati al terminale così per un paio di mesi. Non oltre però. E non andate a dire poi che l’avete fatto perché scritto su un blog di uno psicologo che parlava di smart working: credetemi, chiedete al vostro capo (se siete dipendenti) una tastiera supplementare o investite 10 euro (se siete collaboratori in partita iva) in questo dispositivo. Eviterete dolori e grossi fastidi in futuro.
Tempo fa si adoperavano dei monitor
molto “importanti”, nel senso che erano veri e propri televisori, pesanti e
ingombranti, piazzati a pochi decimetri dai nostri nasi: ora fortunatamente la
tecnologia si è evoluta. Il peso si è notevolmente ridotto, la risoluzione è
andata via via migliorando sempre più e non si necessità più di schermi
supplementari per contenere la brutalità delle radiazioni emesse da questi
aggeggi. Chiedete ai vostri zii, familiari, amici come si stava nell’epoca dove
stavano incollati a questi monitor, fino a qualche anno fa: la vista perdeva
colpi, si avevano frequenti mal di testa e non era poi tanto piacevole
trascorrere ore e ore così.
I computer di adesso dispongono di visori dove è sempre possibile calibrare e regolare sensibilmente la luminosità, il contrasto, la nitidezza – specifiche già presenti nelle leggi di qualche decennio fa, tra l’altro – e sentire meno così la difficoltà di stare tanto tempo a contatto con essi. È buona norma comunque distogliere lo sguardo ogni venti, trenta minuti, tenere aerata la stanza e bere acqua. L’idratazione è fondamentale, specie per gli occhi, composti in massima parte da questo elemento chimico.
Poi ci sono altri strumenti a
corredo della nostra postazione. Come la stampante. La stampante a toner è una
meraviglia dal punto di vista tecnologico: la prima che vidi, un secolo fa
(già. Correva l’anno 1990 e stavo frequentando l’Istituto professionale di
Grafica pubblicitaria), rimase nel mio cuore. Quando usciva la stampa sembrava
che una parte di un libro si fosse clonato: perfetta, dai bordi puliti, nitida.
E calda. Spesso molto calda, al limite dell’autocombustione. Ogni tanto però
queste stampe si… volatilizzavano. Nel vero senso del termine, in quanto
l’inchiostro stava finendo. All’epoca i professori spiegarono a noi sbarbatelli
di stare attenti a quella polverina, e di non cimentarsi assolutamente nel
cambiare noi il toner. Da una parte perché era rovente e dall’altra perché
quella polverina era molto pericolosa per la nostra salute. Superfluo dire che
un adolescente ignora la seconda parte e stava più attento a non scottarsi, in
quanto quello era il reale pericolo che vedeva davanti a sé.
Le stampanti a toner non vanno mai
e poi mai utilizzate nello stesso ambiente di lavoro dove si vive o si
soggiorna per diverse ore al giorno. Se questa condizione non fosse possibile
essere attuata, dovremo fare in modo da avere un costante ricircolo di aria,
che tradotto in periodi invernali significa “tenere la finestra aperta e farci
congelare tutti”. In ufficio le stampanti a toner sono poste in prossimità di
una finestra, lungo un corridoio (il già citato D.Lgs. 81/08 è molto chiaro in
merito circa la loro allocazione), o comunque poste in modo tale che i
dipendenti siano tutelati quanto più possibile nella loro salute. Il cambio del
toner, inoltre, andrebbe fatto solo munendosi di presidi di protezione idonei
(guanti in lattice) o lavandosi bene le mani a fine operazione. Credo sia
superfluo ricordare come il rifiuto, il toner usato, vada in appositi
contenitori e inviato ad un centro di smaltimento specializzato.
Recentemente ho notato un gran
diffondersi di stampanti casalinghe di questo tipo, spesso a prezzi convenienti
e dalle dimensioni ridotte, acquistabili anche online o nelle principali catene
di informatica. Molte di queste poi comunicano con computer e telefono tramite
una rete senza fili, il che le rende molto pratiche e funzionali. Le stampe,
poi, sono sempre perfette e di gran qualità. Le stampanti a toner stanno
sostituendo l’altro tipo di stampanti, quelle ad “inchiostro liquido”:
quest’ultimo tipo di periferica non è così pericoloso come l’altra. Le
cartucce, spesso rigenerabili, sono più piccole rispetto ai toner, e si tratta
fondamentalmente di inchiostro, appunto. Non così dannoso per la salute come il
toner. La qualità di stampa è leggermente inferiore e il consumo di cartucce,
più piccole, è maggiore.
La locazione di una stampante a
toner a casa è una scelta delicata: evitate se possibile di piazzarla vicino
alla cameretta dei pargoli e mettetela magari in un disimpegno, meglio se in
prossimità di una finestra, e comunque mai a contatto con la postazione fissa
dove deciderete di lavorare, o di studiare. Anche se spenta e anche se sicura,
la stampante a toner può comunque rilasciare inchiostro polverizzato, cui è
meglio non venirne a contatto in modo continuativo.
Ma lo smart working richiede poi un’accurata conoscenza dei nostri
limiti: lavorare da casa è sì più semplice, per certi versi, ma spesso si tende
a fare più del necessario e lavorare più del dovuto. Tante volte capiterà che,
proprio perché si sta ultimando una serie di mansioni, si ritardi nella cura
della persona o della famiglia: spesso le donne sono gli Angeli (veri!) del
focolare, e a loro sono spetta prevalentemente cucinare e sistemare casa. Confido in un futuro migliore, dove anche gli uomini si adegueranno a queste mansioni - compreso lo stirare, una delle attività casalinghe notoriamente più odiate...
Quando lavoriamo tra le quattro mura domestiche, sapendo che siamo pagati e remunerati, potremo tardare di accendere l’acqua per la pasta, ad esempio. È ben diverso del lavorare in uno studio dove a mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, vediamo gli altri colleghi alzarsi e andare via. Nello smart working siamo da soli. Eventualmente ci sarà la collega ad avvisarci, tramite messaggio, che si allontana dal posto di lavoro. Fisicamente, però, non potremo vederla. L'aspetto sociale del lavoro agile rappresenta per molti un reale disagio. Il lavoro in ufficio serve a rompere la monotonia e le abitudini familiari: potrebbe capitare che in famiglia ci sentiamo poco compresi e capiti per ciò che siamo, mentre al lavoro succede il contrario.
Può anche capitare che ci arrivi una mail ad un’ora impropria, come alla mattina presto o alla sera tardi: spesso lo smartphone è collegato con la posta aziendale, e vediamo in tempo reale la comunicazione pervenutaci. In condizioni “normali” la nostra vita è scandita in altri modi: la posta aziendale, ad esempio, sappiamo di aprirla una volta arrivati in ufficio e la chiuderemo poco prima di rincasare, quando il calcolatore elettronico si spegnerà.
Nel lavoro agile, però, il calcolatore
elettronico rimane sempre acceso, e noi con lui. Possiamo spegnere il computer
portatile, ma non il telefonino. Succede anche negli altri casi, quando siamo
in azienda, certo: ma se vediamo arrivare una comunicazione di un cliente
mentre siamo in autobus o in auto, aspetteremo a rispondere, probabilmente,
rimandando la risposta quando rientreremo nella postazione.
Diversamente da quando si è casa,
dove siamo “sempre in postazione”, e accendere un pc per evadere una richiesta,
magari giunta alle 2 di mattina, ci costa poca fatica. Alla fine non prendiamo
sonno, siamo mezzi svegli, la famiglia dorme e non disturbo nessuno: clic!
In questo senso dobbiamo imparare a
tutelarci. Non sta bene farci carico sempre e comunque del lavoro per cui siamo
pagati. Abbiamo bisogno dei nostri spazi, dei nostri tempi, delle nostre
libertà. Giocare coi figli, cucinare per passione, leggere o semplicemente fare
quattro passi staccando con i tormenti dell’ufficio. Dobbiamo imparare a
delegare, a chiarire a noi stessi delle nostre libertà, che è molto più
difficile che dirlo agli altri.
Lavorare troppo, in questo senso, satura il nostro cervello di pensieri e riflessioni che alla lunga giocano a suo sfavore. Ricordo tempo fa, quando ero dipendente di una cooperativa, che arrivai ad esser troppo “sul pezzo”, perennemente assorto nelle continue richieste che mi arrivavano sul telefonino. Iniziai ad avvisare tutte la sintomatologia da stress da lavoro (evito di entrare nel dettaglio. Ho già scritto in merito sull’argomento su questo blog). Feci quindi un’azione semplice: tolsi dal telefono l’account della posta aziendale. Fu come prendere fiato: in questo modo avevo più energie – e meno stress – da dedicare ai miei incarichi. La posta e le comunicazioni le evadevo una volta in ufficio, e i problemi li risolvevo sul momento. I fine settimana erano di nuovo miei.
Come scrivevo all’inizio, meglio prediligere un lavoro che ci piace fare. Quando siamo immersi nelle nostre attività il
tempo vola, ma dobbiamo sempre ricordarci della nostra salute: stare davanti al
computer va bene, ma nel lavoro agile siamo noi gli imprenditori di noi stessi,
siamo noi che decidiamo quando iniziare, quando fermarci e quando riprendere.
Amo il mio lavoro. Essere psicologo, psicoterapeuta, è una gioia per cui ho speso tanti anni a studiare e a formarmi, e non voglio smettere. Quando si ama ciò che si fa siamo anche in grado di diversificare le tante mansioni a cui andiamo incontro: ci sono momenti che dedichiamo più attenzione a quel dato aspetto (ad esempio leggere un articolo), altri dove dobbiamo essere presenti (coi clienti, con le persone, con gli allievi), altri dove dobbiamo semplicemente “resettare” la mente e riposarci, anche solo chiudendo gli occhi e fare in modo di vivere i pensieri che avvertiamo come se fossero nuvole bianche su un cielo azzurro. Le lasciamo andare per la loro strada, non ci fissiamo su di esse. Ci saranno altri momenti per dedicare loro l’attenzione dovuta.
Concludendo: lo smart working può agevolare molto la
nostra carriera, ma dipende molto da noi. Non diamo per scontato tanti elementi
(tipo lo stare a casa in ciabatte e tuta da ginnastica), e riflettiamo su di
essi, alle cose apparentemente più semplici e scontate.
Prima ancora che sullo smart, concentriamoci su di noi. Sulle nostre necessità, sui nostri desideri e ciò che vogliamo e possiamo fare in quel momento. Solo così, credo, riusciremo a non essere sopraffatti da questa “nuova” modalità operativa di lavoro.
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